“L’Africa e i poveri si sono impadroniti del mio cuore”( D. Comboni)

“AMANI : M-UPENDO”

Mentre, seduta e incastrata tra due valigie, ci dirigiamo verso Kigali per il volo di ritorno, lascio scorrere volti e colori nella mente e nel cuore.

Siamo un po’ “scomodi”, perchè su un mezzo di fortuna ci troviamo in 21 persone al posto di 9 e questo, unito ad un acuto odore di sudore tipicamente africano e alla rossa polvere che entra dai finestrini, mi rende difficoltoso anche il pensare.

         Stiamo attraversando il Rwanda su una strada in continua salita e discesa e ci lasciamo alle spalle 50 km. di foresta. Il colore delle piantagioni di thè mi viene incontro e mi avvolge. E’ una sensazione riposante nonostante le condizioni in cui stiamo viaggiando.

Il verde cambia tonalità quando il vento muove le foglie, poi ritorna ad essere lo stesso, un colore così intenso e gradevole che io non ho mai visto prima.

E questo aiuta ricordi e sensazioni.

         Sono volate le tre settimane a Cimpunda (periferia di Bukavu), ospiti di una nostra comunità di Suore.

Ho accettato volentieri di riaccompagnare un gruppo di giovani appartenenti a parrocchie diverse della Diocesi, per una esperienza di volontariato e animazione pastorale con bambini, adolescenti e di scambio culturale con i giovani.

E’ stata impostata come esperienza forte di coerenza cristiana con quel popolo e testimonianza di giustizia e amore dentro la nostra e la loro storia.

Non posso fare il confronto con lo scorso anno: pur essendo l’attività quasi la stessa, l’esperienza è stata diversa, meno entusiasmante forse perchè mancava la novità, ma fatta di rapporti profondi con persone già incontrate, fatta di piccole cose…come il sentirti chiamare per nome e augurarti: “amani”(pace) e a cui rispondi subito: “m-upendo” (amore).

Questo è il saluto che il Congo ti da e che ti chiede, perchè ne ha un bisogno estremo!

Ti salutano così i bambini che trovi ad aspettarti alla porta… ti saluta così la donna che incontri ricurva sotto un enorme peso fisico e morale… ti rispondono così le ragazze, timide, dallo sguardo velato di tristezza e nello stesso tempo, di curiosità o speranza.

         A Butare ci raggiunge il nostro pulmino “aggiustato” e ci risistemiamo con i nostri bagagli.

Siamo un po’ tutti ammaccati, affamati e assetati, un po’ tesi per il ritardo che speriamo di azzerare.

Mentre riprendiamo il viaggio, osservo alcune donne sul ciglio della strada: i colori dei loro kiquembe mi riportano a quella macchia di colore che mi ha sempre affascinato: il mercato delle donne sulla collina. E’ uno spettacolo ricco e povero nello stesso tempo, unico nel suo genere. Difficile trovare tanti colori insieme in un colpo solo… colori che offrono un po’ di carbone, canna da zucchero, qualche frutto, un po’ di farina, ciabatte di gomma e…tanti sorrisi e dolcezza di sguardi.

E’ la vivace povertà dell’Africa!

         Il pulmino fila “troppo veloce” per fermare un saluto ai bambini che dai bordi della strada ti gridano: “i musungu” ( bianchi).

Rivedo in loro quelle centinaia che abbiamo fatto giocare nel grest sui “DIRITTI DEI BAMBINI”…

altre centinaia del Centro Nutrizionale, che smettevano di mangiare pur di avere una nostra attenzione, un sorriso, un segno di affetto…e ringraziano Chiari per il dono Quaresimale che darà la possibilità di un pasto in più.

Oltre che essere denutriti, il 50% di loro è già malato di AIDS o TBC, ma non lo sanno e continuano a sorridere e cercare nel tuo sguardo o nella tua mano un segno di amicizia.

Come dimenticare!?!

Arriviamo a Kigali mentre la città è in fermento per le elezioni del Presidente. Lasciamo il caotico centro e ci dirigiamo verso l’aeroporto.

Nessuno di noi parla e non credo per mancanza di parole, ma per imprimere meglio negli occhi e nella mente le ultime immagini di quest’Africa che ci ha accolti per tre settimane nella sua polvere e che in qualche modo ti “strega” con la sua gente, i suoi bambini, i colori e gli odori.

E tu non puoi farci niente!

Con gli occhi lucidi puoi solo augurare agli amici che restano: “AMANI!” e ti sentirai rispondere con un largo sorriso: “M-UPENDO!”

suor Paola Rubagotti

suore Dorotee di Cemmo

Chiari

dall’Africa a Brescia

“AMANI, M’UPENDO”

“Jambo sana” amici, cosi ogni giorno inizia la giornata in Africa: con un saluto festoso.

All’alba le persone si riversano sulle strade, centinaia di bambini escono da ogni angolo ti circondano e tutti ma proprio tutti ti salutano, con un sorrisone da far schiattare di invidia le migliori pubblicità del dentifricio, ti prendono per mano e camminando per le stradelle del villaggio ti accompagnano in qualsiasi posto tu stia andando; e camminare per strada diventa quasi un ballo o una festa.

  Cosa ha significato per me tornare in Africa? E perché sono tornato? Spiegare cosa sia il mal d’Africa a parole non è sicuramente facile, so solo che se devo parlare di questa esperienza tiro un sospiro, il cuore mi batte forte e il mio sguardo si perde per un attimo nel nulla alla ricerca di quei visi, di quei vestiti, di quei colori, dei canti e dei balli… mi sono sentito come a casa, accolto, amato, il benvenuto, o meglio ancora il bentornato.

 Cimpunda, la parrocchia che ci ha accolto,  è un quartiere  alla periferia della città di Bukavu nella repubblica “democratica” del Congo e si trova a circa 1800 metri d’altitudine su una collina che si affaccia sul lago Kivu, la città confina direttamente con il Rwanda uno Stato che per anni combatte per avere il controllo politico, economico e militare di tutta la regione. Perciò è facile capire quali scorrerie, soprusi, ingiustizie in questi anni di guerra questa città abbia subito portando allo stremo delle forze la popolazione e riducendo alla fame tutte le zone limitrofe.

  Il quartiere di Cimpunda è perciò divenuto un quartiere di sfollati e visto che il governo è praticamente inesistente ognuno ha costruito un po’ dove gli capitava creando cosi una gigante baraccopoli fatta di un ammasso di lamiere, assi, pietre e fango dove le fogne sono all’aperto e corrente e acqua sono un lusso che solo pochi possono permettersi.

In questo quartiere si trova la missione delle suore Dorotee di Cemmo che già da anni chiedevano un’ esperienza di scambio tra i loro bambini e ragazzi, con la Parrocchia di Chiari, che finalmente dopo un tentativo fallito per colpa della guerra, l’anno scorso è riuscita a organizzare questo incontro tra giovani bresciani e la realtà congolese, aprendo cosi un ponte fatto di amicizia fratellanza e pace.Un ponte che quest’anno qualcuno ha deciso di ripercorrere insieme a nuovi compagni di viaggio.

 Lo spirito con cui siamo andati a Bukavu è quello che ci insegna il vangelo ovvero siamo andati ad incontrare dei fratelli poveri senza portare altro che noi stessi cercando di metterci sullo stesso piano, giocando e lavorando con loro e non creando quel rapporto di sudditanza che si crea tra chi da e chi riceve cose materiali, come capita spesso con le organizzazioni internazionali che si ritrovano poi a dover gestire delle aspettative che loro stessi hanno creato. Questo modo di rapportarsi è stato molto costruttivo sia per noi, quanto per loro, perché ci ha messo in gioco, ci ha permesso di spogliarci delle cose esteriori e ha messo a nudo le nostre ricchezze, le nostre gioie, i nostri difetti.

 Abbiamo scoperto che i nostri sogni, le cose che ci rendono felici e quelle che ci rattristano non sono poi cosi diverse, anche se viviamo a migliaia di chilometri di distanza; che le nostre differenze non possono che essere una ricchezza, se abbiamo la capacità di non giudicarle ma di considerarle un dono che ci caratterizza e se siamo pronti a condividerlo con gli altri.

  In queste tre settimane abbiamo riconsiderato alcuni aspetti della nostra vita: ci hanno insegnato che prima vengono le persone che ci circondano, e poco importa se ciò occupa tempo perché il tempo che usiamo per stare con gli altri non è tempo buttato; abbiamo imparato quanto importante è l’acqua e quanto è stupito abusarne, vivendo una settimana di siccità costretti a lavarsi con la disponibilità di un catino al giorno, e vedendo loro che per avere un poco d’acqua erano costretti a fare chilometri a piedi con le taniche a spalle; abbiamo imparato a seguire i ritmi del sole perché l’elettricità veniva fornita solo pochi minuti al giorno; ci hanno insegnato che anche nella sofferenza bisogna continuare a sperare, avendo il coraggio di guardare avanti, continuando a cantare, ballare e pregare, avendo la certezza che il Signore sta in mezzo ai poveri, cammina, soffre, canta e balla con loro; ci hanno insegnato in sostanza che la vita è il dono più bello che Dio ci ha fatto e che bisogna viverla fino infondo.

  I miei ringraziamenti vanno perciò alle fantastiche suore che ci hanno ospitato in particolare a suor Giuliana che tanto ha fatto per accoglierci nel miglior modo possibile, a suor Paola e a don Adriano che ci hanno accompagnato fisicamente e spiritualmente in questa avventura,e a tutti i miei compagni di viaggio; Marco, Sara,  Paricì, Antonio, Silvia, Federica, Valeria, Luca, Serena e Mauro

“Jambo sana” (grazie) a tutti

Gabriele

NEI TUOI OCCHI: L’AFRICA!

Nei tuoi occhi: l’Africa! Questa frase me la sono sentita ripetere più volte da parenti, amici, e da chi ho avuto modo di incontrare appena rientrato dal Congo.

Sicuramente la gioia nell’aver potuto realizzare il desiderio più grande che avevo nel cuore dall’agosto 2002!

Si, è proprio vero, ho avuto l’occasione do tornare a Bukavu a distanza di un anno.

 La ragione che più mi ha spinto a ripetere questa esperienza, è stata quella di testimoniare, con la mia presenza, che non mi ero dimenticato di loro, anzi, come segno di fratellanza e unione è stato bello ritornare in mezzo a loro.

Ho affrontato il viaggio senza alcun timore, perché so di essere sempre accompagnato da Qualcuno, ma una particolare attenzione l’ho avuta nei confronti dei miei amici che scendevano in Africa per la prima volta.

L’unica cosa che mi premeva era quella di arrivare al più presto a Cimpunda, dove sapevo già che erano in tanti ad aspettarci e ad accoglierci…e appena sceso dalla jeep mi sono subito sentito a casa.

Incontrare tutti per le strade polverose e dare loro la mano o un abbraccio, mi ha fatto sentire uno di loro; essere riconosciuti, chiamati e salutati per nome, è un’emozione indescrivibile: davanti a Lui siamo tutti uguali e fratelli!

Sono andato con altri giovani, a mani vuote, ma con il cuore aperto e pronto ad accogliere l’altro come un dono di Dio.

Da una preghiera personale:

Signore, mi hai donato due occhi

Per vedere il tuo volto nei volti che ho incontrato.

Mi hai dato una bocca per cantare,

gridare e pregare con loro.

Grazie, Signore, perché mi hai donato due mani

per toccare tutte le tue mani che ho preso

E due piedi per danzare, camminare e correre

su quelle colline polverose.

Tu mi hai dato un cuore e un’anima

per ascoltarmi e ascoltare la tua chiamata.

Quest’anno ho vissuto questa esperienza con tutta la serenità che ho acquisito lo scorso anno e, tra tutte le cose che abbiamo fatto, mi sono sempre ritagliato dei momenti per pregarti, Signore.

A dire il vero non mi sembra di avere fatto cose particolari, ma una grande: saper ascoltare la loro richiesta di aiuto che non è altro che la Tua voce.

Ora che sono tornato a casa, tutto mi appare più semplice perché so cosa vuol dire donarsi agli altri: essere felice di quello che sono e non di quello che ho!

Chissà se un giorno tornerò ( nella testa ho già un piccolo progetto…e vi lascio immaginare!), nel frattempo prendo come una missione il mio impegno in oratorio, nella mia comunità.

Andrea P.

“Passandogli accanto lo vide…”

“ (…) Passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino; poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò ad una locanda e si prese cura di lui. (…) Gesù gli disse: “Va e anche tu fa lo stesso”.

Martellante tornava in continuazione l’invito di Gesù; quel “tu” sembrava rivolto a ciascuno di noi, insicuri, ma infaticabili, ricercatori di un senso per la propria vita. La strada da percorrere era già tracciata, mancava solamente il nostro lasciarsi tentare, il nostro donarsi completamente all’esperienza, alle persone.

Non ci convinceva tanto il fatto che questo Samaritano fosse uno normale: era un po’ troppo buono, un po’ troppo attento, aveva investito troppo tempo per chi non conosceva, gli si era fatto un po’ troppo vicino per le nostre abitudini comportamentali.

Ma forse era davvero una persona comune, resa poi speciale da un incontro.

Non ci restava che fidarci delle sette parole di Gesù e cercare, anche noi ragazzi in viaggio, l’Incontro. L’esperienza di Cimpunda, periferia di Bukavu nell’Rdc, costituiva l’occasione, la sfida a cui eravamo chiamati; tredici persone, venute da parrocchie diverse, con esperienze e motivazioni differenti hanno vissuto assieme 23 giorni, “scommettendo la propria vita, giocando fino in fondo, donando tutti i loro giorni con amore”.

Ora che siamo tornati la prima domanda che ci viene posta dalla maggior parte delle persone è: “Come è andata?”; ma la seconda, figlia della nostra società, è: “Ma, concretamente, che cosa facevate là? ”

“Concretamente? Animazione per i bambini”. E talvolta abbiamo veramente, perdonateci, risposto così: l’affermazione è abbastanza ricca di rimandi, che aggiungendo, giochi, canti, bans, la curiosità di alcuni era già sedata dopo l’immancabile, “faceva caldo?”

Concretamente? Sorrisi, mani che si aprivano per accoglierne altre, carezze, lacrime, parole, tratti di strada percorsi insieme, polvere equamente condivisa…

Concretamente? Svegliarsi ogni mattina sentendo una collina che balla alla musica dei tamburi e ai canti dei bambini, lavarsi con i catini assaporando l’odore dell’acqua che sa di petrolio, ma che nonostante è tanto utile e preziosa, uscire e sentirsi persona importante desiderata, amata, rientrare con fatica la sera, indecisi su quale sia il momento giusto per l’ultimo jambo prima di attraversare il cancello che ci separava dal mondo esterno .

Concretamente? Ognuno di noi era, fondamentale testimone della propria ricchezza, della propria personalità, della propria ricerca; ognuno di noi c’era, insostituibile autore di ciascun incontro fatto di viso, cuore, mani.

Animare è stata una costante di tutta l’esperienza di Cimpunda: abbiamo dato l’anima in ogni attività svolta, ciascuno ha dato viva espressione di sé col proprio stile e ciascuno ha infuso coraggio con la propria presenza. Se questo non è stato difficile sulla strada, si è dovuta porre attenzione a determinati fattori e difficoltà per i momenti strutturati del grest.

Innanzitutto la programmazione: il rischio è di non sapere cosa voglio e dove vado, il che equivale a ingannare e tradire i ragazzi. L’obiettivo è il punto di arrivo, è l’orizzonte del mio lavoro, è rispondere alla domanda: che tipo di uomo salterà fuori? Avere abbastanza chiaro, sin dall’inizio, questo punto di arrivo, mi obbliga a dare una precisa direzione al cammino. Noi cristiani siamo inoltre chiamati ad annunciare una realtà che ci supera immensamente, che rimane mistero grande; ciò implica che va evitata ogni pretesa di possederlo, di avere l’esclusiva su Dio, e che dobbiamo essere persone aperte al dialogo e al confronto. Il dialogo si è rivelato essere lo strumento e il metodo ineludibile per la ricerca di una convergenza su valori comuni.

La scelta della tematica del grest, i diritti dei bambini, e le stesse attività da svolgere sono state discusse e condivise con gli animatori congolesi. Questo perché  l’ambiente in cui vivono lancia delle sfide, propone dei modelli di uomo differenti dai nostri; non possiamo illuderci di creare nuovi occidentali; è molto più serio preoccuparci di conoscere queste proposte della “concorrenza” e chiederci quali sono le caratteristiche di “questo ragazzo”.

Per la scelta degli obiettivi da raggiungere abbiamo posto attenzione a due fattori:

gli obiettivi dovevano essere raggiungibili, concreti e verificabili dall’animatore e dagli educandi; ciò ha implicato che anche i ragazzi fossero a conoscenza degli obiettivi!

Abbiamo stabilito per questi un minimo e un massimo in cui dovevano stare tutti i ragazzi; questo aspetto è per ricordarci, già in sede di programmazione, degli ultimi, di chi fa più fatica.

Abbiamo poi discusso con gli educatori circa il ruolo e i compiti di ciascun animatore. Siam partiti dal fatto che fosse necessario che ogni animatore stesse con i suoi ragazzi, che condividesse con loro l’esperienza, che si percepisse coinvolto nella vita degli educandi. L’alternativa sarebbe stata rimanere estranei al loro mondo e avere pochissime possibilità di comunicare.

La difficoltà più grande è stata quella di far percepire il ruolo nuovo a cui ogni animatore era chiamato e far capire nuove metodologie con cui proporsi e agire.

Ogni relazione educativa con i ragazzi doveva essere caratterizzata da:

– asimmetria educativa: non gioco a fare il bambino, non siamo allo stesso livello; io ho una ricchezza personale e culturale da comunicare in stile di dialogo e proposta.

– accoglienza e fiducia: ti prendo al punto dove ti trovi, come sei, maschio o femmina, grande o piccolo… e non mi sostituisco a te; credo che ciascuno abbia le forze per cavarsela.

– accettare l’ unicità: ogni ragazzo ha dei suoi ritmi e strade di maturazione ed ha una sua libertà.

Sull’attività dei ragazzi il problema è stato “solamente” quello di farli passare da una posizione passiva ad una attiva. Sfidare le abilità dei ragazzi significava non utilizzare più come unica metodologia quella delle domandine o della lezione, ma creare nuovi strumenti orientati ad applicare il discorso alla vita, a destare l’interesse dei ragazzi, a fare in modo che nessuno venisse escluso dalla riflessione e dal gioco.

In due parole: si è trattato di educare alla profondità e alla curiosità animatori e ragazzi, per far crescere la voglia di approfondire e di sperimentare ciò che si è appreso nella propria quotidianità.

Non mi resta che identificare l’elemento che alla fine ha reso grande la nostra esperienza di animazione: l’amorevolezza.

Essa è stato amore dimostrato, reso presente, concreto e visibile, in modo da attirare i giovani a vivere la gioia del nostro incontro.

Amore dimostrato: don Bosco affermava: “non basta che i giovani siano amati, bisogna che sappiano di essere amati”. L’amore ha educato, perché ha creato un ambiente favorevole all’accettazione delle persone ed alla interiorizzazione dei valori. L’amore si è posto come aiuto anche agli animatori, come antidoto alla frustrazione: chi ha fatto le cose per amore, non ha richiesto altra ricompensa.

E lo stesso Amore si è riversato su di noi, ci ha avvolto e ci accompagna tuttora;

Amore dalle mani, dalle parole, dai sorrisi, dalle preoccupazioni di Suor Giuliana, infaticabile e insostituibile testimone di carità cristiana e di dolcezza materna.

Amore negli occhi di ogni incontro fatto, in ogni mano stretta, in ogni viso accarezzato.

Amore nella gioia di scoprirci Amici, di essere insieme, fianco a fianco, lungo il sentiero che conduce all’amore per i poveri, convinti che questa vita non abbia molto senso se la si tiene tutta stretta per se stessi.

Mauro P.

Tornare a Bukavu questa estate è stato tornare là dove avevo lasciato il mio cuore in sospeso, sono partita per riprendermelo, invece sono tornata con la consapevolezza che non posso far altro che lasciarne un poco là, nella comunità di Cimpunda, un’altra famiglia.

L’esperienza è stata molto diversa da quella dell’anno scorso, non ero più frastornata dalle fortissime emozioni che il primo impatto con un “altro mondo” mi aveva provocato, e ho potuto vivere l’incontro con le presone e con una cultura diversa dalla nostra non solo emotivamente, ma con tutta me stessa, in modo più completo.

Tornare al centro nutrizionale e prendere in braccio quei bimbi a cui avevo pensato per tutto l’inverno, attorno ai quali il mio affetto si era stretto ancora prima delle mie braccia, è stato bellissimo. Non mi è più balzata agli occhi la loro denutrizione, la loro sofferenza, l’ingiustizia insostenibile che grava sulle loro spalle; vedevo solo la loro gioia d’animo, gli occhi che parlano a un livello molto più profondo di qualsiasi parola, lo sguardo di Dio che riconosce quei piccoli innocenti come i figli di cui è orgoglioso!

A messa, la mattina in cui abbiamo iniziato le attività del KA con i bambini (un equivalente del nostro grest), il coro ha intonato Jesu Wangu, una canzone che ho cantato infinite volte qui in Italia, la canzone che mi riportava in Africa, che mi dava la possibilità ripensare al Congo anche nei momenti di silenzio spirituale più duri, quando quasi avrei voluto ignorare che le fette di salame si erano spostate dai miei occhi, perché quello che avevo visto a Bukavu è inconciliabile, o mi sembrava tale, con la vita che viviamo qui. Quella mattina cantando la “mia” canzone con coloro che ne erano per me il significato, insieme a loro, mi sono sentita parte di una comunità, ho ricevuto una grandissima carica di entusiasmo rispetto all’animazione che stavamo per cominciare.

Sono tante le contraddizioni che ho colto e che m’erano sfuggite, per esempio la scelta frequente di mandare un figlio o due all’università e lasciarne 5 o 6 (generalmente figlie) analfabeti.

Ho ricevuto tantissimo affetto, dagli adulti che ci hanno accolto con calore e soprattutto dai bambini, che ci hanno coccolato, accompagnato ed aspettato per tutta l’esperienza.

Una conoscenza del francese un po’ più curata, e moltissima voglia di comunicare, mi hanno dato gli strumenti per discutere con adolescenti e giovani, mettevamo in risalto differenze culturali e usanze incomprensibili gli uni per gli altri, eppure di questi scambi a me è rimasto un senso di uguaglianza forte, viscerale. Perchè le aspirazioni di fondo sono identiche qui come in Congo, ognuno nel suo quotidiano e ogni mentalità a modo suo punta sempre al sostentamento, all’amore, alla pace, alla solidarietà con chi si ha accanto, ad un incontro autentico, alla felicità, e, perchè no, a delle piccole gratificazioni che possono essere un abito elegante (quelli africani hanno dei colori sgargianti) o una comodità in più. Di questi bisogni alcuni trovano soddisfazione qui in occidente, come la pace, o il sostentamento quasi per tutti, altri sono più facili da vivere al di là dell’equatore, per es. la solidarietà o l’incontro; ciò non toglie che tendiamo tutti nella medesima direzione e il Congo in quest’ottica non è un altro mondo, ma un’altra casa a una giornata di viaggio da qui!

Un’estate diversa

Siamo partiti alle due del mattino del 2 agosto dall’oratorio di Nave con tanto entusiasmo e con tanta voglia di vivere un’esperienza diversa dalla solita vacanza. Il viaggio è stato una bella avventura , con qualche imprevisto che lo ha reso sicuramente più divertente (quando si parte con il pulmino dell’oratorio non sai mai quello che ti aspetta). Quasi nessuno però sapeva esattamente cosa ci avrebbe aspettato; e infatti dopo il lungo e faticoso viaggio con sosta per la notte a Kigali (capitale del Rwanda) siamo arrivati a Bukavu e più precisamente a Cimpunda, dove abitano le suore Dorotee da Cemmo e dove siamo stati accolti con un calore commovente.

L’impatto con la realtà congolese ci ha lasciati per qualche giorno storditi. Non è stato facile abituarsi alla miseria, ad avere intorno, appena uscivi dalla missione, centinaia di bambini sporchi e vestiti di stracci che in continuazione ti chiedevano qualsiasi cosa, al paesaggio fatto di colline coperte da capanne di fango alle strade non asfaltate a profumi e a odori sconosciuti.

Con l’aiuto e l’appoggio di tutti però i momenti difficili sono stati superati e l’esperienza è stata ricca e interessante come mai avrei pensato.

Per i primi tre giorni abbiamo lavorato con gli animatori per cercare di trasmettere loro un modo diverso di stare con i bambini. Poi c’è stato il “grest” con i bambini (suddiviso in due fasi perchè i bambini erano troppi) e con loro abbiamo giocato, cantato e parlato per quanto era possibile farlo.

Abbiamo incontrato persone che appartengono a gruppi che si occupano di sensibilizzare la popolazione in merito a diverse tematiche. E abbiamo anche cercato di fare qualche attività con i giovani e gli adolescenti. Qualche problema c’è stato, ma con serenità è stato affrontato e superato.

E così in un baleno tre settimane sono passate e ci siamo ritrovati di nuovo a Brescia, al nostro lavoro o sui nostri libri, ma penso con una consapevolezza e una visione della vita diversa. Sembra banale dirlo ma noi qui siamo veramente fortunati.

La gente congolese si sente (e lo è) dimenticata dal mondo e vive da anni nella paura di una guerra crudele e di una violenza inimmaginabile che non risparmia nessuno e che logora lentamente.

Ora sanno che noi siamo loro vicini e forse questo li aiuterà a vivere con più speranza nella pace.

Sara B.